GUALTIERO DE SANTI
Catalogo della Galleria International Arts di Roma per la fiera di Bari Inco Art del 1975.
“Brescia Oggi” – Arte e Società – Sabato 23 aprile 1977
“Casa Arredamento e Giardino” – n° 76 – maggio 1977
“Essenze pittoriche dall’endometria”
Nella sua richiesta di essenzialità e nel volgersi a quei livelli di analisi e a quel registro quanto più possibile prossimi allo specifico della denotazione, l’arte moderna si è sempre più allontanata dalle ipoteche referenziali per ciò che attiene l’oggetto rappresentato, da sollecitazioni genericamente fantastiche e blandamente intuitive quanto alla sostanza degli stimoli e delle motivazioni che presiedono al moto ed alla stessa dinamica della ricognizione di specie estetica. O quantomeno – alla luce delle risultanze e degli esiti irrisolti – ha tentato di farlo. Poichè, per restare a quelle che sono le esperienze di maggiore ampiezza e di più rigorosa pertinenza, non solo non è apparso affatto risolto il nodo arte-vita su cui pure s’appuntarono l’attenzione e l’intelligenza degli autori, ma tra le tante “impasses” sono da avere in conto il fatto di non essere andati oltre precisazioni meramente istintive e la riproposta di una spazialità e di una plasticità di astratta indeterminatezza.
E’ dalla critica del soggettivismo tanto quanto dal rifiuto di qualsivoglia dialettica intuitiva che prende le mosse la ricerca di Vittorio Guarnieri – di cui occorre dire in via preliminare l’aderenza alle ipotesi e alla asserzioni di quella logica produttiva e endometrica che hanno trovato in Franco Spisani l’iniziatore e la più coerente sistemazione teoretica . Trattandosi di fornire una progettazione dello spazio in termini extraempirici, appare chiaro come sia risultato in tal senso di idee e di esperienze derivanti soprattutto dall’endometria di là dal blocco “fisicistico” e meccanicistico del geometrismo tradizionale è stata infatti l’endometria a postulare e a progettare la possibilità di uno spazio vuoto, in uno spazio cioè determinato in modo latamente scientifico, fossero fissabili infiniti punti vuoti atti a generare per autosintesi ed autoproduzione, senza l’interventi necessitante dell’operatore o della mens creativa, altrettante figure in sospensione neutra. A livello estetico, la questione si presenta come capacità di trascendere insieme al vincolo preferenziale quel “realismo di struttura” cui obbligava il ricorso ai moduli ed ai sintagmi geometrici (con quelle mini o macrostrutture preesistenti nelle quali confluirebbero di necessità le decisioni dell’artista): capacità che porta al superamento di ogni contingente per approdare alle virtualità di autonomia fornite o presupposte dallo spazio mentale. Ciò fa si che l’arte astratta, nell’attimo stesso in cui raggiunge il suo obiettivo – in cui discioglie e vanifica ogni condizionamento e rinvio esterno nel calco del suo nuovo organismo unitario -, torna per ciò stesso ad essere concreta, viene cioè ad attingere al concreto enuclearsi e svolgersi degli elementi costitutivi. Il bisticcio depone l’apparente antilogia se si pensa al processo di autodefinizione della figura endometrica, termine con cui non a caso si riporta il lavoro di Guarnieri.
Non bisogna però supporre che il fatto di collocarsi all’interno della ricerca endometrica contenga o elimini l’intervento e la riflessione personale. In questo senso l’esperienza di Guarnieri può essere considerata probantemente esemplificativa. Dopo un primo approccio occorso in ordine alla realizzazione grafica di figure che illustravano, nel volume di Spisani “Significato e Struttura del Tempo” (Bologna, 1972) la funzione della categoria temporale e dopo ancora che modalità specificatamente tecniche si erano di fatto risolte in una convinta e ragionata appropriazione della materia investigata, Guarnieri ha atteso a costruire figure – lunghi listelli a rettangolo variamente accostati – nelle quali e per le quali ha accertato e quasi computato uno degli assiomi della logica endometrica: cioè a dire, la possibilità che le figure hanno di automisurarsi e al contempo autodefinirsi all’interno del nuovo spazio. Si tratta di una prima fase, ampiamente documentata dai testi esposti all’ultima quadriennale.
Successivamente, liberata la figura estetica da ogni dipendenza esterna e da ogni peso estraneo alla sua vera e precisa natura, Guarnieri ha proceduto a sottrarre il colore ad una identica subordinazione, a quella riduzione che intendeva la sostanza cromatica come attributo ed ornamento di un qualcos’altro. Sciolta da connessioni con strutture pittoriche definite, la materia coloristica è stata in tal modo sollevata da ogni funzionalità esperienziale e rapportata all’unica necessità di delineare un rapporto e un legame con la luce. Anche qui valgono i principi della variante di automorfismo sopra descritto: solo che qui, non essendo questione di forme, si deve piuttosto parlare di autosintesi: cioè a dire di autodeformazione della serialità del colore (si pensi ai tre quadrati cromaticamente differenziati e ritmicamente modulati della Inco Art 75), dove la cromia è restituita al solo obbligo di intessere rapporti con lo spazio e con l’innesto luministico.
Nella più recente produzione – della quale si hanno qui alla Fiera gli esempi più puntuali – le modalità endometriche trovano un logico e conseguente asserto in un ulteriore processo di autodeterminazione. Stavolta, previa la sovrapposizione certo non casuale o indifferente di strati diversamente rilevanti quanto a vivezza e pregnanza cromatica, si è addivenuti a impasti e a segmenti materici ottenuti con l’intervento dell’autore ma al di fuori della sua esplicita volontà di opzione. I risultati mostrano che il quadro si è in qualche modo fatto e plasmato da sè, per forza ed impulso endogeno.
La descrizione del percorso guarneriano non esimerebbe da una più accurata e definita analisi dei rapporti tra l’endometria e le sue applicazioni nelle arti figurative, tanto in senso generale quanto nel microcosmo delle esperienze di Guarnieri. Dovrebbero venirne precisazioni in un qualche rilievo. Per intanto, ci pare giusto concludere rilevando come al tentativo endometrico di una pittura fondata su presupposti extraempirici faccia poi riscontro un’immagine di logica iconica e di “peintre-penseur” che non è dato incontrare ogni giorno nella normale prassi artistica. Quasi che l’arte si fosse fatta carico di non essere mero impulso istintuale aprendo un confronto con la scienza e la filosofia e problematizzando in tal modo al massimo – o a uno dei massimi gradi – le proprie forme espressive.
Gualtiero De Santi
Urbino – aprile 1975
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Catalogo per la mostra alla Galleria Vinciana di Milano nel 1977
Motivazioni e senso dell’opera di Vittorio Guarnieri fanno tutt’uno con le indagini extraesperienziali condotte da alcuni anni in qua. Guarnieri muove dalla logica spisaniana grazie alla quale ha maturato il rifiuto di ogni resa naturalistica o semplicemente pittoricistica, al modo in cui si è prefisso con calcolo perentorio il superamento di ogni mediazione, fruizione o. intromissione di specie empirica. Accantonati e sepolti i realismi e le fenomenologie, ma anche l’apodittica sacertà di certo avanguardismo, l’attenzione per la logica produttiva ha portato, nel passaggio verso la prassi artistica, a un tipo di atteggiamento singolare percè singolarmente staccato da ogni presupposto corsivo e soprattutto legato a un modo di fare pittura in cui quest’iltima finisce per gestirsi da sola. In questo – crediamo – è la novità ancora impregiudicata, forse non pienemente esplicata e esplicantesi, della proposta di Guarnieri. E qui è da misurare il distacco da taluni settori delle nuove generazioni e il modo nuovo di guardare a quella realtà che sta sotto il reale e che è per Guarnieri la solo pittura praticabile.
Il punto di riferimento rimane sempre e comunque l’endometrismo – con quel che significa nel concreto. Ma cosa avviene nel campo pittorico? In quale modo si arriva al momento della formalizzazione o se si vuole dell’autoformalizzarsi della materia? Nell’endometria moduli, cromie e scansioni ritmiche si commisurano e autorealizzano all’interno della zona neutralizzata che individuano. Nè è da scordare che la suite autoproduttiva di oggetti (e dunque anche di oggetti pittorici) si traduce in una loro concettualità svincolata dall’esperienza, giacchè essi sono privi di attributi caducamente empirici.
Vediamo però le cose più da vicino. Il movimento d’avvio è indubbiamente segnato da quella “ratio”, acquisita in precedenza, nella quale risolveremo l’ideologia e la poetica dell’autore. Ma crediamo che a questo punto sia necessario l’intenzionalità cosciente, che spinge alla costruzione formale, dallo stimolo che comanda le operazioni complicanti i metalinguaggi. Non si fraintenda: non c’è l’intento di ipotecare o inficiare l’esistenza oggettiva della sequenza autoproduttiva reintegrando la categoria dello psicologismo. Resta che il meccanismo che scalda il “gesto” alla decisione cosciente (con tutti i residui di lasca consapevolezza o non consapevolezza che però non incidono in modo notevole) assume una evidente importanza nella fase attiva, o relativamente attiva, del processo pittorico. Specificamente nella fase iniziale.
L’ntenzionalità quanto all’atto teoretico guida infatti alla intenzionalità dell’atto espressivo. Ma, per paradosso non più che apparente, la logica dell’endon evidenzia una antinomia superficiale. L’intenzionalità precedente l’impulso che porta a tracciare il segno realizza un gesto sempre identico a se stesso, ma proprio per questo differente, replicato con regolare frequenza però tale da aprire l’autogenesi del testo. Le campiture consegnate alla meccanica dell’alternanza tra monocromi e policromie, le sovrapposizioni, le sintesi spazio-luce-essenza-colore: tutto questo, se non si crede di accettare il tautologismo della pura embricazione, è subordinato a quel dinamismo gestuale che interviene sull’impasto pittorico.
La variabile è al contrario nella strumentazione, nell’articolarsi e nella scelta dei diversi strumenti. Ma è qui, nell’atto pur ripetuto e automatico, che passa a nostro avviso il processo di formalizzazione; ed è qui che trova sbocco l’impulso che l’artista, logico dell’esperienza che indaga – come ha scritto una volta Guarnieri -, offre alla materia perchè lieviti in una sua autonima significazione. L’antinomia che poteva scorgersi non è allora di sostanza: chè la progettualità (o l’assunzione di una specifica progettualità) non contrasta, sul piano della produttività e della logica endometrica, con il libero concretarsi del rappresentabile. Insomma, non si ha solo una inedita accezione di quell’automatismo già variamente praticato dalle avanguardie differenziato perchè diversi restano fini e approdi (volto tutto all’interno ad esempio nei surrealisti, tutto al di fuori di ciò che è “cripto-empirico” ed “empirico-derivato” in Guarnieri). L’automatismo interviene sull’oggetto affrancandolo dalla sua inerzia, rivelandone per intero le potenzialità, e l’artista in questo caso è risolto in presenza cosciente e drammatica. L’espressione è così l’immettersi nell’auto formalizzazione, e anche l’impulso plana subito nell’autosintesi. Dal punto di vista della mathesis ogni differenza si risolve in identità. Non potrebbe darsi l’opposto.
Ci sono tuttavia elementi che fanno problema, e che andrebbaro per questo annessi al computo critico. Accanto all’invariante filosofica e accanto ancora al reiteramento gestuale, si deve riflettere sull’obbiettiva multisemamticità dello strumento che intacca il pigmento ed è da soppesare sino in fondo la valenza di pulsioni istintive, se si vuole improbabilmente indagabili, che non possono non intervenire in una operazione del genere. Grosso modo è la somma di tutte queste variabili a fissare il valore di posizione (e forse si deve aggiungere la luce che agisce sulle superfici irradiando soluzioni volta a volta differenti). Anche la materia oggettivantesi in struttura, con la determinazione che le compete e che le è assagnata, è un apriori da convalidare al di fuori della teoresi, da vedere nel testo. Ad ogni modo, la possibile abiezione che sarebbe sterile un’analisi o la stessa interpretazione di un quadro in grado di regolarsi da solo cade su questo punto: se ne è accertata la fondatezza, proprio in questo è allora il problema, ed uno dei più affascinanti dell’arte contemporanea.
Si è infatti di fronte a una sorta di “tableau vivant” nel senso meno estensivo del termine e, forse, ancora in questo si tocca un altro limite della ricerca novecentesca. Il materico si capovolge in materia autodefinentesi improprio, l’informale viene trasceso in un qualcosa che rifiuta qualunque legittimazione convenuta, la “work in progress” cede il posto ad un’opera che ha dalla sua il primato di un percorso organico coincidente con la sua identità. Si è al confine fra arte e scienza, giacchè l’antagonismo tra espressione e tecnicismo è composto nella negazione di entrambi. Se il quadro endometrico è la risultante del processo di depurazione da ciò che è contingente i problemi che si presentano sotto il rispetto altrettanto filosofico che semiologico sono enormi. Si è come introdotti in una nuova fase della ricerca iconografica – ed è giusto in questo senso che Guarnieri si chiede se oggi la pittura, quella ufficiale e vulgata, esista e in che possa consistere la sua miseria agli occhi di chi è spinto a scegliere la “pittura del silenzio”. A parte il discorso sugli effetti sintattico-semantici (soltanto il futuro potrà dire l’entità di questa svolta e in quale modo essa avrà inciso), si può toccare un aspetto essenziale nell’attuale dibattito sull’arte. Non si parli di ingenuità nè ci si collochi in un’ottica vechia: non è scontato che l’immagine che si svolge e si definisce da sola non porti problemi sotto il profilo emozionale. Guarnieri sostiene di aver voluto – non tanto la sua pittura – quanto alcune precise risultanze: il variegarsi cromatico, la scansione spaziale, la suggestione delle superfici appena trascorse dal segno che le ha indagate e sfrangiate, soprattutto la lontanante figuratività a l’envers in cui a tratti baluginano paesaggi irreali velati dal continuum del colore – e altro potrebbe aggiungersi. Ma il quadro che muta per endogenesi in qualche modo rinvia al suo autore, lo dimestifica e lo aggredisce in tanto che pittore. E questo dà luogo a quella angoscia non sempre inconfessata, che è poi non solo l’angoscia di vedersi sfuggire un dominio inveterato, quanto piuttosto l’irrequietudine – vaga, lunare, straniante – che si prova dinnanzi a fenomeni nuovi e non totalmente percepibili anche nelle loro conseguenze immediate.
E’ giocoforza supporre che vada guadagnato terreno, magari sotto le specie di una nuova reificazione, quel processo di spossessamento che l’uomo subisce nel vedersi deprivato del proprio prodotto. Il rilievo non manca di fondamento. Ma può risultare più vero che questo poi serve a scoprire noi stessi, e lo spazio che si occupa, usando quanto le scienze, pure o applicate, sono venute progressivamente accumulando (si pensi a recenti individuazioni della microfisica che ripongono in causa categorie su cui s’è fondato per secoli il pensiero occidentale). All’interno di questa logica e della nuova possibile prassi, il lavoro di Guarnieri ha così una funzione più vasta. Al di là della lingua e degli stessi esiti, l’uomo arriva a scoprire i limiti ed il senso del suo trovarsi nell’universo. E vi si inserisce con razionale ed umana umiltà.
Università di Urbino, settembre 1977