FRANCO SPISANI

Catalogo del premio “Monzuno 1970”
Catalogo della mostra alla Galleria Schiessel di Friburgo 8/11- 21/12/1975

Lo spazio nella pittura di Vittorio Guarnieri
Vi sono più modi di intendere lo spazio. Guarnieri ha scelto quello del sovvertimento dei parametri consueti, nella ricerca di una dinamica oggettuale che scandisca ritmi, interni, precisi. Con l’abbandono dei postulati che paiono inseparabili dalla struttura geometrica, con il superamento delle geometrie non-euclidee, che, pure, hanno dichiarato i limiti presenti nell’accezione classica dello spazio, Guarnieri – che da tempo si è accostato agli studi di endometria – ha saputo continuare, in sede estetica, un discorso che trova le proprie radici nella mia logica della produzione e nella mathesis superiore. Con la lucida trasparenza dei suoi quadri, coi bagliori intensi che si stendono all’interno delle opere migliori, con il risalto di linee e piani automisurativi – che, dietro le apparenti “incoerenze metafisiche” nascondono il tessuto della rigorosa riduzione della struttura dell’oggetto in una nuova sfera spaziale -, egli dà corpo, nel piano artistico, ad un discorso che, da anni, io avevo iniziato su quello logico e matematico (lo ricordo allievo sagace ed accorto, Vittorio, allorchè seguiva, dieci anni orsono, le mie lezioni sul significato automisurativo dello spazio extraempirico). Gli dicevo allora che la costruzione degli spazi curvi, la negazione del postulato delle parallele, pur assumendo un ruolo importante nella storia delle matematiche e, di riflesso, in quella dei raccordi estetici, non dovevano risolversi in modifiche accidentali; ed egli mi seguiva nella ricerca di un nuovo rivolgimento totale, che toccasse, davvero alle basi, lo spazio interno, che interrompesse le presunzioni del realismo immediato che ambisse, infine, alla presa di contatto con uno “spazio neutro”.
Da tempo, il discorso è stato approfondito: oggi sappiamo che le insufficienze non si eliminano facendo ricorso a geometrie o a forme artistiche, le quali – con un certo numero di postulati – consentano costruzioni analoghe a quelle che si vogliono “porre in sospeso”. Guarnieri è consapevole che bisogna andare oltre a ciò che immediatamente si vede. Sa che, accanto al rigore logico, occorre affermare un’architettura di forme depurate al limite, che si  “automisurano”. Non vuole perpetuare, nel piano dell’arte, errori o debolezze altrui. Non intende ripetere quanto, dalla tradizione, gli viene; ma realizza, nelle sue forme, l’autonomia di un’estetica disincantata che scinde gli usi pragmatici, le pretese di concretezza e le facili presunzioni, alianti, ancor oggi, nel modo dell’arte. La sua pittura non vuol essere ricalco di dati empirici di oggetti corposi, appesantiti, densi. Egli procede oltre la dimensione consueta delle cose. Si oppone sia al realismo che a certe aristocratiche forme speculative che vorrebbero risolvere tutto sul piano del soggetto. Nella votezza apparente delle forme staccate dall’esperienza, libra un nuovo valore misurativo. Le figure si misurano mentre si costruiscono. L’arte coincide, da ultimo, con la scoperta di uno spazio nuovo; e non c’è pericolo di cadere nel “geometrismo”. La geometria, per Guarnieri, non costituisce un ostacolo; si è tradotta, infatti, nell’endometria di forme che nascono dall’oggettualità neutrale, capace di ricavare, da sé, i contenuti propri. La sua pittura, come l’endometria, non nega l’esperienza; chiede, però, che il discorso sia condotto anche fuori dei confini empirici, e, mentre riafferma la concretezza dell’astrato respinge i luoghi comuni del buon senso: non c’è nulla di vago nell’astrazione endometrica; e, se il senso comune si adonta degli impalpabili segni che il pittore trascrive nella sfera oggettuale, egli sorrida dell’eccessivo valore che comunemente si attribuisce alla corposità degli oggetti .

Zurigo, luglio 1970

Catalogo della  mostra al Centro Attività Visive del Palazzo dei Diamanti di Ferrara 28/6-7/9/’75
Gala International – anno XII – n° 74 – novembre 1975

Pittura Endometrica
Accostarsi agli studi endometrici, significa, prima di tutto, porre mente al carattere autocontraddittorio della realtà. Un identico aspetto si evidenzia come eguale e diverso. La figura diventa punto ed il punto si rivela, perimetralmente, con caratteri ‘figurativi’.
Nelle ricerche condotte nell’ambito dell’endometria, la figura costruita coincide con il punto, in quanto le diagonali, che ad essa ineriscono, sono nulle. La struttura complessiva del punto-figura possiede i tratti, apparentemente paradossali, d’una contraddizione di fondo: ciò che non ha superficie propone, tuttavia, un perimetro commisurabile. Quest’ultimo circonda un’area che repentinamente dilegua. Il punto è figura, e viceversa. La proposta d’una geometria delle forme, almeno ad un livello infrafenomenico – o extraempirico – della realtà dev’essere respinta. Esistono zone, spazi mentali, oggettivi, che negano ed affermano, insieme, il carattere “figurativo” del reale. L’intero processo di ‘depurazione’  dal geometrismo latente nelle forme, ha la propria base matematica e non è il semplice risultato di propensione sentimentale, affettiva. Non è frutto d’intuizione e basta.
Il discorso si dilata, in maniera che può sorprendere, al piano artistico: quando il pittore guardi alle radici del reale, penetrando l’esteriorità dei tratti superficiali, vagliando la consistenza dell’interno, incontra la contraddizione del ‘puntuale’ che si fa figurativo, della figura che è punto, dell’eguale che è diverso. Rimane, allora, egli per primo, sorpreso: la figura si crea, si automisura, si annulla. Dalla negazione della forma deriva il suo stesso significato subliminale; la linea è vibrazione luminosa: spazio-luce-essenza-colore, come Vittorio Guarnieri ama dire dei suoi quadri.
Il risvolto artistico dell’endometria – di cui, forse, non si prevedeva tanto in anticipo l’emergenza – è il prodotto dell’applicazione dei rilievi endometrici (cfr. i miei Neutralizzazione dello spazio per sintesi produttiva, Bologna, 1963 e Significato e struttura del tempo,Bologna, 1972) all’arte, e Guarnieri, che non si rifugia nell’attesa di uno spazio inerte, vuoto, spento, fa vibrare di riverberi intensi che sta, misurativamente, all’origine di sé : un mondo di forme che si costruiscono e si nullificano in improvvisi bagliori, in luci adamantine, riconquistate ‘graffiando’ nella tela segni decisamente delineati sullo sfondo, poi ricoperti di un impasto bianco. Quei colori sono lì, dietro il monocromatismo, imposto, aggiunto; e vengono fuori con imprevedibili movenze; hanno i tratti del ‘nuovo’ e del ‘diverso’. Il bianco, la superficie dominante, spettrale, vorrebbe fissarli, spegnerli, rigettarli indietro; ma quei colori, attraverso il ‘graffio’ si ripresentano agli occhi in barbagli vivi, luci che provengono da lontananze sotterranee, eppure non hanno i caratteri del semplice vagheggiamento intuitivo. Sono il prodotto del policromato che si ripresenta quando si spezza l’involucro del monocromatico; sono le linee del differenziato che contendono la monotonia dell’eguale; e ci si accorge, allora, che data una identità con una differenza di fondo (colori sovrapposti dal bianco), quando si nega monocromaticamente quell’identità-differenza, imponendo dal di fuori, con la superimposizione del bianco, del nero (e potrebbe essere qualsiasi altro colore), i modi della distinzione interna, quando sia fissata una differenza aggiunta (esteriore), l’interiorità non è ancora dissolta: l’artista graffia e scuote la sovraimposizione. Pazientemente, con stupore, e senza l’ombra di fatica, estrae l’interiorità cui la superficie sovrasta. Stacca il bianco, il nero, della differenza aggiunta; ricava la diversità originaria, iniziale; ma questa, riaffiorata che sia, non è più quello che era (e che, di sotto, è ancora), perchè l’artista non stacca il bianco come epidermide compatta, ma lo ‘ferisce’, lo penetra, e, qua e là, lo frantuma.
Sarebbe un impegno affaticante e disperato, se l’emergenza, sempre imprevedibile, del colore non accendesse nel cuore dell’artista l’entusiasmo di chi svela, a sé e agli altri, la vivezza dell’autocontraddizione.
Non c’è più posto per le superfici che, calate sulle forme, le ottundono. Così, almeno, si vorrebbe: e se il ‘sovrimposto’ permane, se non lo si strappa intero, è perchè il superamento dell’aggiunto, del ‘canonico’, dell’immobile (che, poi, non è l’originario eguale) resta provvisorio e precario. La superficie aggiunta non si annulla; è, a suo modo, essenziale. Provoca l’atto di ribellione dell’artista, dell’uomo, che lacera e respinge quell’immobilità; ed essa si ripresenta puntualmente: è l’affermazione delle scelte soggettive, scontate, cristallizzanti “non c’è identità; non c’è differenza dentro” – sembra dire -; “ci sono io, di sopra, che impongo la caratterizzazione”. Sono le pretese dello stantio e del sedicente eguale; ma l’uguale è identico, solo se è diverso. La diversità viene ricondotta a sé, ed alla differenza che include, quando l’involucro dell’esteriore porta i segni della lacerazione e della ribellione. Si va contro l’immobile, allorchè l’autodifferenziato riconquista, attraverso l’arte, i suoi modi. Il sovrimposto serve all’identico-differente per liberare quest’ultimo dal rischio di una sua oggettuale immobilità. Senza il sovrimposto, quello che sta sotto sarebbe già di fuori: la vita non sarebbe lotta né scoperta, ed è l’artista che scalfisce e combatte l’esternità; ne riconquista il senso.

Zurigo, aprile 1975

Catalogo della Galleria Schiessel di Friburgo per Art 7’76 a Basilea

Avanguardia Endometrica
Prima con la litografia, il teatro da “boulevard”, il romanzo d’appendice, poi con il cinema, la radio, si è giunti a forme artistiche standardizzate, e si è avuto l’arte, legata a congegni, che impoveriscono sovente la creazione. Oggi, anche le avanguardie si sono trasformate sino a diventare, non di rado, anticipatrici di “standards”, mondi atrofizzati, stantii. Per cui vi sono attualmente due modi di fare pittura d’avanguardia: preparare l’innovazione, nel tessuto casuale, incidentale della specifica contingenza storica; di rompere, in maniera profonda, quella realtà transitoria a preparar il “nuovo” come frantumazione non solo dei predomini seriali, ma come reperimento, anche, di più genuini mezzi operativi posti a disposizione dell’artista. Questo secondo modo di compiere un’azione di avanguardia non è reattivo, come da qualche parte si vorrebbe.
Non si nega qui che anche i funzionalisti, i sostenitori di una pittura dell’esperienza come immediatezza del fenomeno – che non muta ma ricalca il reale – possano apparire, se guardati da una società che perscruta il valore dell’efficienza, e della serialità, come innovatori, rispetto agli artisti di tempi andati. Essi tuttavia si precludono il senso d’un pensiero creativo, che contemperi l’esigenza dell’artisticamente valido, con quella dell’inedito, e del liberatorio. Sono i cittadini dell’attuale Babilonia. Non colgono più lo spirito delle cose; non l’essenza del reale. Si scontrano e discutono senza comprendersi: – questa è la realtà dell’arte, non quella – dicono; – bisogna riguadagnare gli “standards”, approdare al consuetudinario, al comprensibile – ; e, intanto, non sanno capirsi.
La nuova avanguardia, in cui vive la pittura endometrica – della quale le mostre di Vittorio Guarnieri sono espressione significativa -, non tenta impossibili ripristini dell’immediatezza del reale; non dice  d’una esperienza che andrebbe contemplata così com’è. Non ripete lo sforzo di staccare, separare dalle zone contestuali, momenti, frammenti, della vita, per fissarli, in un attimo, e vederli cadere nel nulla. Non si limita al consuetudinario, perchè respinge l’accezione d’un reale che starebbe appicicaticcio, immobile; e non vuol ridurre ad elementi semplici, fenomenici, un oggetto la cui natura, od inseità, consiste in primo luogo nell’essere complessa.
Non si può – né si deve – ridurre l’arte al “frammento”, che solo per aver appartenuto al mondo degli uomini, al vivere sociale, conserverebbe i tratti del significativo. Quello è il difetto del procedimento tetico-antitetico ridotto a garantire la sola permanenza del meccanico e dello sdilinquito. L’arte non è contemplazione o ricalco: è creazione che insegue e distrugge gli “standards” per ritrovare in se stessa l’origine della contraddizione (continua negazione e affermazione di sé, quindi reperimento del nuovo). L’avanguardia endometrica del Guarnieri si dirige verso l’abnorme, l’eccezionale, l’apparentemente strano; però quella stravaganza, se guardi più a fondo, è effetto di chi si meraviglia che non si accettino l’adusato e il consuetudinario, che non ci si collochi nel funzionale e nell’empirico. Quella stravaganza non c’è più per chi insegua il modo dell’autocontraddizione. Perchè dovrebbe essere assurdo non coccolare la morta gora del pragmatismo o del funzionalismo, per dirigersi, invece, alla negazione dello stantio? Alla domanda si oppone una domanda. – Perchè non siete contenti di quello che avete? – ribattono. – Perchè non guardate a ciò che vi è dato, oggi, qui ed ora, nel nostro vivere civile e sociale, per paludarne il senso?- E’ una proposta inattendibile: il paludamento è sempre pigrizia, inerzia del pensiero. La vita chiede all’arte di sottintendere, nell’immagine, qualcosa; e quel qualcosa che sta sotto, non può esser l’immagine stessa, né un’adesione pigra a quello che è dato subito. Troppe volte, ciò che si riserva all’artista è l’ingiustizia di un conservatorismo greve, una vita da allocco, che irride e disprezza ciò che non le appartiene e, per scrupolo e virtù, ne resta fuori. Bisogna disfar le tettoie; la luce deve battere sul color lionato, sui grugni, sui bugni, perchè si veda che l’esistenza non è tutta lì, fra le quattro pareti di sterco, tra le ali mozzate dei fuchi. C’è gente che vive e soffre e muore, nel mondo. Se ritagliate la materia l’esperienza nei luoghi comuni della vostra società, compiacendovi di quel presunto bello che, ieri, avete creduto di aver intravisto, vi avvoltolate nel concio. La vita è una continua lotta. Non vi è nulla di reattivo in questo. La vita è anche dolore e morte: c’è il poveretto che ha sete e fame nelle distese brulle del l’Alto Volta.
Allora non servono più gli impasti coloristici di chi vede il mondo con l’occhio del pragmatico. Si ricostruisce, nella contraddizione, e nella lotta, persino il pigmento: IL policromatismo che ci è dato sarà coperto – questo è il precipuo avvertimento che deriva dall’esperienza coloristica che s’innova – e dalla sovrapposizione del bianco al policromo, negando la negazione (quella bianca colata discesa sul policromo, non per mascherarlo, bensì per rigenerarlo), graffiando, lacerando quel bianco, affiorerà il nuovo colore.
Si richiedono cromatismi capaci di dipingere il mondo non nella dimensione cara ai pragmatici, ma come dovrà e potrà essere riconsiderato con gli occhi della realizzazione dialettica: non questo pigro mondo ma la realtà d’ogni paese, d’ogni continente; il mondo riguardato e ricostruito alla luce d’un pensiero che distrugge, insieme all’immediatezza della fruizione empirica, i simboli del vecchio e dell’allieno.

Bologna, 3 maggio 1975